Eppure, scrive Tommaso Pignatelli nei suoi versi limpidi e nel dialetto napoletano divenuto lingua universale ed anche poetica o lirica per eccellenza, insieme ad altri pochi dialetti (nell’uso che ne fanno altri pochi autori. Per esempio: Pasolini de La meglio gioventù, Biagio Marin e tutta la sua poesia, Franco Scataglini di So’ rimaso la spina, Tolmino Baldassari e le sue ombre nel romagnolo di Cervia, Franco Loi di Isman, Giuliana Rocchi e le lucciole e le cicale uccise dai veleni nei campi, nel suo santarcangiolese), «eppure dint’ a mme gallìade l’accèuzo | e no songo sperciàt’ a granecà» (Eppure in me trionfa l’eccelso | e non sono riuscito a profittarne).
Questa vita che ci cattura e ci prende, noi zampàn’ o muschille, perché rincorrerla se ci avvolge già, perché aggredirla se già ci è intorno con tutto quanto essa contiene, dall’inizio alla fine? Perché volerla cambiare? Se, in mezzo, si infila nelle fibre (e nei versi) una sorta di malinconiosa sfinitezza, frutto di assedi esterni più che di desideri irrealizzati o indotti, frutto di scarso uso della ragione più che di ragioni in sé, sia essa pure una parete, una quinta, del teatro assegnato a ciascuno dalla vita stessa che se lo è assegnato per sé in prima battuta, un teatro assegnato perché si faccia e si operi.
E il senso? Esiste? E’ da cercare? Che tutto abbia un fine e un senso? («Ca tutte tène fenìtur’ ‘e vulè dìcere?»). Rotola il sillabario, tutto sembra tornare uguale, ma ci vuole tempo… per morire, tempo per accorgersi di essere e stare in bilico su un vivere che va riempito, appunto di fatti e di opere, e per, dunque, non farsi sorprendere dal silenzio, sturcio fattariello, notizia indecorosa, dal silenzio che sopprime il vivere anche oltre i giorni assegnati.